martedì 27 gennaio 2009

La storia del Novecento e il socialismo reale di fronte al postmodernismo storiografico

di Stefano G. Azzarà
in corso di pubblicazione su "Marxismo Oggi"

Vediamo quali sono i titoli di alcuni dei lavori su Stalin e la storia dell’Unione Sovietica di più recente pubblicazione nel panorama accademico internazionale. The European dictatorships: Hitler, Stalin, Mussolini, di Alan Todd; Stalin und Hitler: das Pokerspiel der Diktatoren, di Lew Besymensky; The dictators: Hitler’s Germany and Stalin’s Russia, di Richard Overy; Schlachtfeld der Diktatoren: Osteuropa in Schatten von Hitler und Stalin, di Dietrich Beyrau…: sono testi – e potremmo continuare a lungo con il nostro elenco - che sin dal titolo si rifanno allo studio sulle «vite parallele» di Stalin e Hitler scritto a suo tempo da Alan Bullock e che mirano esplicitamente a un’equiparazione di queste figure. Lo stesso può dirsi di libri come Victims of Stalin and Hitler: the exodus of Poles and Balts to Britain, di Thomas Lane; Two Babushkas: how my grandmothers survived Hitler's war and Stalin's peace, di Masha Gessen; La strana guerra. 1939-1940: quando Hitler e Stalin erano alleati e Mussolini stava a guardare, di Arrigo Petacco, per citare un autore italiano. Nell’ambito di questa vera e propria «storia di mostri» del XX secolo, spicca poi per apertura ed equanimità dello sguardo un libro dal titolo impareggiabile: Tiranni: duemilacinquecento anni di potere assoluto, morte e corruzione nella vita e nella storia dei cinquanta despoti piu potenti e crudeli di tutti i tempi da Gengis Khan a Hitler, da Stalin a Saddam Hussein, di Clive Foss!
Al di là dell’eccesso di zelo dimostrato da quest’ultimo lavoro, la linea di tendenza è abbastanza chiara: non c’è sostanziale differenza tra la barbarie nazista e i crimini staliniani. Tralasciando le questioni di dettaglio, medesima è la natura profonda di questo orrore, che è accomunabile sotto la categoria di «totalitarismo» ed è riconoscibile a partire dalla sua intrinseca ostilità alla democrazia, alle libertà individuali, ai diritti umani e dei popoli e al rispetto per la persona. Lo stesso è il ricorso alla dittatura più feroce (Gleichschaltung unter Stalin? a cura di Stefan Creuzberger e Manfred Gortemaker), lo stesso è l’uso dei campi di concentramento (Nei lager di Stalin, di Alessandro Ferioli), le stesse sono le spietate persecuzioni nei confronti degli ebrei (Order fur einen Mord: Die Judenverfolgung unter Stalin, di Alexander Borschtschagowski; Stalin’s secret pogrom, a cura di Joshua Rubenstein e Vladimir P. Naumov; Stalin's last crime: the doctors' plot, di Jonathan Brent e Vladimir P. Naumov; La guerra di Stalin contro gli ebrei, di Louis Rapoport), lo stesso è l’uso spregiudicato della macchina propagandistica e degli intellettuali ai fini della manipolazione delle menti (Im Dschungel der Macht: Intellektuelle Professionen unter Stalin und Hitler, a cura di Dietrich Beyrau). Lo stesso, è stato detto, è persino il profilo psicologico, o meglio psicopatologico, di questi due criminali efferati e sanguinari, sui quali pesa alla stessa stregua il marchio dell’infamia: un profilo assai prossimo alla follia e alla paranoia aggressiva, le cui radici affondano, secondo alcuni interpreti, sin nell’oscurità dei loro traumi infantili (Vita segreta di Stalin: il profilo psicologico e intellettuale, le letture, di Boris Semenovic Ilizarov; Stalin e i suoi boia: un’analisi del regime e della psicologia stalinisti, di Donald Rayfield; Stalin’s folly, di Constantine Pleshakov). Non sembra un caso, insomma, che queste follie parallele e convergenti abbiano ad un certo punto stretto un patto di sangue per il reciproco sostegno e per la spartizione dell’Europa, come avviene nel 1939 con il patto Ribbentrop-Molotov.
Questo rapido excursus ci consente di capire i motivi per i quali sono almeno due i piani di discorso che si intersecano nell’ultimo libro di Domenico Losurdo (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008), dal quale prendiamo spunto per questa riflessione sulla storia del Novecento. E’ possibile infatti confrontarsi con il contenuto esplicito di questo libro, e cioè con la figura politica di Stalin e i processi storici che agiscono alle sue spalle, in quell’intreccio complicato che fa da sfondo non solo alle vicende della Russia sovietica ma all’intera storia mondiale del XX secolo. Ma è possibile anche scegliere un altro registro e privilegiare una lettura, per così dire, “metastoriografica” di questo testo. Mentre parla di Stalin, infatti, Losurdo parla sempre simultaneamente di un tema più generale e più vasto: lo stato della storiografia contemporanea e l’uso del metodo storiografico in relazione al Novecento, alla Guerra Fredda e a tutta la tradizione rivoluzionaria.
Ho cominciato proprio con questo aspetto perché mi sembra quello più urgente. Attraverso un’analisi delle più importanti ricerche sulla figura di Stalin, Losurdo mette infatti in luce lo stato assai critico della storiografia contemporanea. E’ certamente comprensibile che, essendo più vicino all’attualità e a quei suoi conflitti che sono ancora maggiormente vitali, lo studio del presente rischi di appiattirsi sulla dimensione dell’uso politico della storia e che quindi esso confini inevitabilmente con l’ideologia e, a volte, anche con la propaganda consapevole. Anche in questi casi, però, un uso accorto del metodo storiografico dovrebbe salvaguardare gli storici dal lasciarsi andare ad esperimenti che mettono a repentaglio la stessa serietà dei loro sforzi.
Losurdo si impegna a decostruire alla radice questo approccio mostrandone la debolezza sul piano scientifico. Non c’è davvero nessuna differenza tra una guerra d’aggressione scatenata in nome della volontà di colonizzazione dell’Est europeo e della costruzione di un impero fondato sulla forza lavoro servile e l’atteggiamento pur brutale di un paese, accerchiato e minacciato di distruzione sin dal momento della sua fondazione, che si sta difendendo da un attacco mortale? Non c’è differenza tra una visione del mondo grevemente razzistica che vuole affermare la supremazia dell’uomo ariano sui popoli di colore e un’ideologia che combatte, anche in maniera tragicamente sbagliata, per sostenere valori di eguaglianza universale e di autodeterminazione dei popoli? Perché, per allargare il campo, la comparatistica dell’orrore deve investire soltanto Hitler e Stalin e non deve essere estesa anche ai paesi liberali? Perché non passare in rassegna anche il comportamento delle grandi potenze occidentali nel loro movimento di espansione imperiale e indagare se proprio lì, nelle pratiche della guerra di conquista impiantate poi nella stessa Europa, non debbano essere individuate le radici più autentiche dell’universo concentrazionario e della mobilitazione totale? Perché, infine, questo approccio storiografico si ostina a mettere sotto la lente d’ingrandimento le vicende dell’Urss e il comportamento dei suoi dirigenti politici in situazioni di crisi acuta e stato d’eccezione, mentre le democrazie liberali vengono viste ed esaltate solo nei loro momenti di normalità? E’ corretto metodologicamente comparare grandezze che non sono omogenee? E che dire poi dell’uso di una psicologia d’accatto per spiegare le grandi contraddizioni e tragedie della storia?
Sono questioni di un certo rilievo epistemologico, come si vede, che Losurdo già da tempo aveva sollevato nel suo libro sul Revisionismo storico (Laterza, Roma-Bari 1996). Ma sono interrogativi che, ovviamente, non hanno impedito a questo tipo di approccio di avere un’estensione ancora maggiore e di diffondersi in campi anche diversi da quello della storiografia in senso stretto, arrivando presto a orientare settori molto larghi dell’opinione pubblica. Per misurare in maniera approssimativa questo fenomeno, vediamo adesso alcuni tra i moltissimi titoli che negli ultimi anni sono stati pubblicati su un giornale importante – ma un giornale che dalla figura di Stalin e in generale dal comunismo sembra essere ossessionato ancora molto tempo dopo la morte della fonte delle sue paure – come il “Corriere della Sera”: «Hitler e Stalin: le affinità elettive di due dittatori»; «Stalin e i suoi picciotti, tra vodka e pallottole»; «Chi occultò lo sterminio degli ucraini»; «Mandel’stam: “Stalin assassino”»; «Ma l’era dei Gulag comincia con Lenin»; «Iniziò con Lenin la violenza “aberrante” del comunismo»... Anche qui non mancano le cose curiose che riescono persino a strappare un sorriso, come «Banane e sangue, quel capriccio di Stalin», oppure «Festa per la serie A: ultras “stalinisti” devastano sedi del Polo». Molto significativi, poi, questi due titoli: «Bertinotti cancella Stalin. Via alla Sinistra europea» (erano i giorni della “destalinizzazione” messa in scena, nel 2004, dal gruppo dirigente di Rifondazione Comunista), seguito il giorno dopo dall’esilarante «Cossiga difende Stalin da Bertinotti: senza di lui tu non c' eri»!
Certo, sul “Corriere della Sera” troviamo anche un autore come Sergio Romano, che ancora in questi giorni si distingue per lucidità («grazie al «carattere ideologico e universalista del regime», dice nella risposta a un lettore, «l’Unione Sovietica ha creato, in nome del comunismo, una classe dirigente multinazionale» e perciò «l’accusa di razzismo, se indirizzata al sistema sovietico, non sarebbe giusta»; «E’ possibile essere contrari al comunismo», continua, «senza ignorare le caratteristiche di uno Stato che fu pur sempre, nonostante i suoi molti vizi, una grande opera del Ventesimo secolo»). Come si può vedere, però, l’approccio non scientifico, sensazionalistico, a volte persino morboso di certa storiografia si è diffuso anche sul principale organo di informazione giornalistica italiano. A pensarci bene, anzi, verrebbe piuttosto da dire che probabilmente è avvenuto proprio il contrario: è la divulgazione storiografica stile “Storia Illustrata” che ha piano piano preso piede nella storiografia accademica.
Si tratta di un problema di grande portata che va ben oltre la questione di Stalin, dell’Urss, del comunismo e della tradizione rivoluzionaria. Siamo qui, infatti, molto al di là dello stesso fenomeno, pur controverso, del revisionismo storico. Si potrebbe parlare di una sorta di “postmodernismo storiografico” che trova il suo modello di riferimento nei format di quell’ambizioso progetto culturale che è costituito da History Channel, il canale televisivo di divulgazione storiografica del gruppo Fox, legato a un imprenditore dei media dall’orientamento ultraconservatore come Rupert Murdoch. Nella giornata di oggi, per fare un esempio, History Channel programma nell’ordine documentari su: «Confessioni di una mummia: il mistero della donna sigillata»; «Le reliquie mancanti di Gesù»; «La rivoluzione ungherese 50 anni dopo»; «Storia del razzismo»; «Sesso nel XX secolo», ecc. ecc. Un palinsesto tipicamente postmoderno, come si vede, nel quale viene meno ogni scala di priorità e ogni taglio critico e qualsiasi argomento, da quello più importante a quello più futile, viene affrontato con lo stesso superficiale approccio spettacolarizzante. E non si creda che tutto ciò non abbia rilievo politico, perché l’impatto di questo modo di “fare storia” sul senso comune può avere alla lunga effetti devastanti di deculturalizzazione di massa e, oltretutto, è già dilagato anche nel circuito culturale di quella sinistra che si vuole più raffinata e aperta alle nuove tecniche di comunicazione. Limitandoci a questo ambito politico-culturale, va poi detto che a questo uso disinvolto vanno a sommarsi anche le ricostruzioni interessate, volte cioè a soddisfare finalità politiche immediate. Un esempio è stato dato dal surreale dibattito sulla “storia controfattuale” promosso da Fausto Bertinotti e Rina Gagliardi attraverso l’appropriazione indebita dell’autorità di Walter Benjamin (del tipo: “cosa sarebbe accaduto se invece di Stalin ci fosse stato tizio o caio”), oppure dalle periodiche giaculatorie fuori tempo massimo di Pietro Ingrao sull’invasione di Praga.
A questo modo di fare storia Losurdo ne oppone uno del tutto diverso. Anzitutto, si parte qui da un uso rigoroso delle fonti, che vengono curate con particolare attenzione. Essendo questa una materia incandescente, suscettibile di far scattare l’immediata accusa di giustificazionismo, nostalgia e persino apologia, si tratta di una scelta dirimente. Ebbene, a parte gli archivi e le fonti primarie, Losurdo riesce a costruire il proprio punto di vista anticonformista sul significato della figura di Stalin pressoché esclusivamente a partire da fonti secondarie ostili a Stalin stesso e comunque sulla base di fonti non sospettabili di simpatie filostaliniane. I dirigenti politici “di sinistra” impegnati nella guerra civile contro il successore di Lenin, come Trotzkij stesso o il maggior storico di orientamento trotzkista, Isaac Deutscher, in primo luogo. Soprattutto, il campo sterminato della sovietologia statunitense e anglosassone dell’epoca della Guerra Fredda, tra le cui stesse pieghe è stato possibile reperire documenti, ricostruzioni e prese di posizione che finiscono per smentire, obtorto collo ma in maniera oggettiva, le tesi banalizzanti e criminalizzanti dell’odierna storiografia postmoderna. Inoltre, Losurdo si fa forte di un procedimento comparatistico a tutto campo che chiama in causa tutti i tipi di regimi politici e di ideologie che si sono confrontati nel corso del XIX e del XX secolo, senza fare sconti a nessuno di essi e mettendo sotto i riflettori anche il comportamento dei paesi liberali. Infine, questa comparatistica non si dipana mediante un semplice ricorso alle suggestioni analogiche più immediate ma mette a confronto soltanto situazioni che sono effettivamente comparabili, a partire dall’omogeneità delle tendenze profonde che soggiacciono al loro sviluppo.




Passiamo adesso al tema in oggetto e cioè alla questione Stalin. Il miglior regalo che si potesse fare alla storiografia revisionistica o a quella postmoderna sarebbe stato quello di affrontare questa questione in una chiave apologetica. Non è questo ciò che fa Losurdo, anche se nel suo libro è forse riscontrabile proprio questa carenza: non essersi confrontato in maniera diretta con la storiografia di corte filostaliniana e con il settarismo autolesionista di certi difensori del dirigente sovietico. Non ne valeva probabilmente la pena, perché alla debolezza scientifica di questi studi non fa da contraltare, come avviene invece nel caso della storiografia dominante, una loro particolare diffusione ed influenza. E però soffermarsi su questo punto avrebbe contribuito a fare ulteriore chiarezza soprattutto in ambito marxista o sedicente tale. Il fatto è che Losurdo, come ho detto prima, nel discutere del problema Stalin tende costantemente a far slittare il proprio discorso su piani diversi e ben più rilevanti che arrivano a chiamare in causa lo statuto epistemologico della storiografia ma anche quello dello stesso materialismo storico. Questa scelta ne ha ovviamente delimitato il campo polemico.
In ogni caso, Losurdo non tace affatto sugli aspetti più inaccettabili della storia dell’Urss e sulle scelte sbagliate che Stalin ha ripetutamente compiuto, come vedremo. Parte però da un dato di fatto: fin oltre la sua morte e «per tutto un periodo storico, in circoli che andavano ben al di là del movimento comunista, il paese guidato da Stalin e Stalin stesso poterono godere di interesse simpatetico, di stima e talvolta persino di ammirazione», come dimostrano i giudizi encomiastici di personalità insospettabili come De Gasperi, Bobbio, Croce e molti altri. Tutto cambia con il Rapporto Cruscev del 1956, quando le rivelazioni su «un dittatore morbosamente sanguinario, vanesio e assai mediocre o addirittura ridicolo sul piano intellettuale» (pp. 17-9), nate nell’ambito di una feroce lotta interna al gruppo dirigente poststaliniano, si incontrano oggettivamente con gli interessi di due fronti contrapposti ma in questo momento convergenti. Si tratta da una parte della sovietologia anglosassone «militarizzata» dalla guerra culturale di sistema e interessata a ribadire la «purezza dell’Occidente» contro l’Oriente barbaro e comunista; e dall’altra «di una certa sinistra marxista» di ascendenza trotzkista, che sin dal 1917 aveva contrapposto la presunta «purezza del marxismo e del bolscevismo» alle miserie del socialismo realizzato e, ben poco materialisticamente, aveva individuato nella singola personalità di Stalin (e nella cerchia «burocratica» attorno a lui) il capro espiatorio delle difficoltà del movimento comunista internazionale, con un procedimento che la esonerava «dall’obbligo penoso di ripensare la teoria del Maestro [Marx] e la storia degli effetti da essa concretamente dispiegati».
Lasciamo perdere dunque le accuse, contenute nel Rapporto Cruscev, che imputano a Stalin una colpevole inadeguatezza nella gestione della guerra contro Hitler: sono gli stessi documenti riservati della Bundeswehr e degli stati maggiori alleati, oggi pubblici, a far emergere la grande acutezza militare e organizzativa della leadership sovietica (pensiamo solo al gigantesco spostamento di tutte le attività produttive verso l’interno dello sterminato paese eurasiatico) ma soprattutto la sua capacità di «mobilitare l’immensa maggioranza della popolazione e la quasi totalità delle risorse» (pp. 33 -59) nell’ambito di uno scontro militare del quale Stalin sa cogliere in pieno la «dimensione politico-morale», facendo coincidere una Grande guerra patriottica contro Hitler con «l’internazionalismo e la causa internazionale dell’emancipazione dei popoli» (p. 26). E lasciamo perdere anche le accuse di «culto della personalità» (p. 42), del tutto fuori luogo in un’epoca in cui le «situazioni di crisi acuta» spingevano inevitabilmente alla «personalizzazione del potere» e alla «trasfigurazione del leader che lo detiene» in tutti i paesi coinvolti nella Seconda guerra dei Trent’anni, USA e Inghilterra in prima fila. Il fatto è che l’epoca di Stalin si comprende solo sullo sfondo di una catena inestricabile di conflitti, nella quale ben tre guerre civili (quella tra la rivoluzione bolscevica e i bianchi, quella innescata dalla «rivoluzione dall’alto» che promuove la collettivizzazione dell’agricoltura e l’industrializzazione, quella che divide senza esclusione di colpi lo stesso gruppo dirigente bolscevico) si intrecciano con le molteplici spinte di un conflitto internazionale che si svolge esso stesso su più piani (Prima guerra mondiale, conflitti nazionali, cordone sanitario, nazifascismi, Seconda guerra mondiale, Guerra Fredda, contrasti interni al campo socialista…).
C’è un primo elemento, dunque, da tenere in considerazione e cioè il permanente stato d’eccezione che caratterizza la vita della Repubblica sovietica. E’ a questa altezza che entra maggiormente in gioco il metodo comparatistico. Di fronte a una minaccia esterna che rischia di mettere a repentaglio l’esistenza stessa della comunità nazionale e dello Stato, come si sono comportati storicamente i paesi liberali? E’ in questa problematica, che è quella della guerra totale novecentesca (che a sua volta trasferisce sul suolo europeo le pratiche di sterminio della tradizione coloniale) che vanno rintracciate le origini di quelle spinte verso la mobilitazione totale che segnano la crisi dello Jus publicum europaeum, in un insieme complesso di fenomeni che vanno dalla sospensione dell’habeas corpus e dal ricorso al concetto di “responsabilità collettiva” alle esecuzioni sommarie (Katyn), dalle deportazioni di massa al ricorso su vasta scala all’incarcerazione e ai campi di lavoro, dall’irreggimentazione ferrea della società al terrore contro i nemici politici sospettati di ordire complotti o di costituire quinte colonne “oggettive”. E’ un orrore che si lega in primo luogo all’orrore della guerra, quindi, e di fronte al quale le misure prese da un paese come gli Stati Uniti non sono essenzialmente diverse da quelle prese dal gruppo dirigente sovietico. Con la differenza che la posizione geopolitica rendeva molto meno grave per il paese atlantico quel rischio che invece per la Russia, aggredita da ogni parte, risultava essere un rischio mortale. E con la differenza non da poco, inoltre, che mai in Russia queste pratiche si sono sovraccaricate di quel surplus di barbarie motivato su basi razziali che ha invece macchiato il comportamento degli USA nei confronti dei giapponesi o dei tedeschi, sulla scorta di un atteggiamento profondamente radicato in quel paese per via del regime di Herrenvolk Democracy bianca che lo aveva a lungo caratterizzato (e che tanto aveva affascinato Hitler: a questo proposito, Losurdo mostra quanto poco scientifica sia l’equiparazione del Lager al gulag, nel quale un enorme numero di persone muore per gli stenti, la fame e il sovraccarico di lavoro ma non certamente per ragioni razziali).
Ma lo stato d’eccezione che caratterizza la dimensione oggettiva dei molteplici conflitti che agitano l’epoca di Stalin non è certamente sufficiente a spiegarne il decorso. Lo stato d’eccezione può essere fronteggiato in maniere diverse e questo chiama in causa le scelte politiche concrete degli uomini, degli Stati e dei grandi movimenti e le responsabilità che ineriscono loro. Ebbene, di fronte a queste gravi responsabilità, nelle quali difficilissimo è sottrarsi alla colpa morale (quale giudizio morale dare di chi, in nome di una “nonviolenza” assoluta, si rifiutasse di usare la forza per impedire una violenza ancora più grave?), il gruppo dirigente sovietico, nella sua totalità, si trova del tutto impreparato e deve scontare gravissime carenze sul piano soggettivo e ideologico. E’ il messianismo utopistico che impregna di sé il bolscevismo a condizionare le risposte che questi uomini sono o non sono in grado di dare e il modo in cui le danno. Un utopismo che è in parte esso stesso figlio dello stato d’eccezione permanente (pensiamo all’indignazione morale di massa contro la Prima guerra mondiale) ma che è in parte anche radicato nella componente “religiosa” e “mitologica” del movimento operaio, alle prese con una questione sociale di proporzioni immani e intenzionato a rovesciare uno sfruttamento delle classi subalterne di durata millenaria.
In questo senso, il cuore di questa vicenda è costituito dalle feroci divisioni che spaccano il gruppo dirigente rivoluzionario sin dall’inizio, prendendo addirittura le forme «di una guerra di religione» (p. 93). Fare la rivoluzione contravvenendo all’ortodossia secondinternazionalista o non farla, come vorrebbero i menscevichi? Continuare la guerra per portare la rivoluzione nel cuore dell’Europa, come vorrebbero Trotzkij e molti altri, o accettare le condizioni al ribasso di Brest Litovsk, come sostiene Lenin? Generalizzazione del comunismo di guerra o Nuova Politica Economica per garantire un minimo di sviluppo e sfamare la popolazione? Costruzione del socialismo in Russia o ancora esportazione della rivoluzione? Smantellamento dello Stato o costruzione e rafforzamento di una statualità di tipo nuovo? Dissoluzione di ogni forma di mercantilismo oppure costruzione di un mercato socialista in grado di distribuire con efficacia le risorse? Edificazione di un ordinamento legale, con una Costituzione e uno Stato di diritto oppure libera autogestione in nome della fine di ogni tipo di conflitto di classe? Dissoluzione automatica del potere trasfigurato in spontanea cooperazione sociale o elaborazione di una forma di potere popolare di tipo nuovo? Sono problemi di enorme portata che lacerano i bolscevichi e dimostrano tutta la serietà tragica delle contraddizioni che hanno dovuto fronteggiare. E che hanno dovuto fronteggiare in una situazione del tutto inedita, senza precedenti e senza manuali o libri sacri da applicare con facilità. Oltretutto, come era avvenuto con Robespierre e Saint Just, essi lo fanno a partire da uno status sociologico oggettivo, quello di «intellettuali non proprietari» (p. 105), che non facilita il loro compito perché li spinge verso tendenze astrattamente utopistiche o moralistiche che, ad esempio, non avevano gravato sui proprietari terrieri che costituivano il gruppo dirigente della Gloriosa Rivoluzione inglese o della Guerra d’Indipendenza americana.
«Tradimento» (p. 48) è la parola-chiave di questo groviglio di problemi. L’accusa rivolta a Stalin da Trotzkij, e dalla quale Trotzkij stesso finirà per essere schiacciato, nasce in questa dialettica: da una parte «le attese messianiche» di un gruppo dirigente che ha preso il potere sull’onda della «rivendicazione di un ordinamento politico-sociale totalmente nuovo» e che crede in maniera entusiasta e quasi fanatica ad una palingenesi totale della società russa e persino dello scenario internazionale; dall’altro la difficile «costruzione del nuovo ordine»: ecco che «l’accusa o il sospetto del tradimento emerge ad ogni svolta di questa rivoluzione particolarmente tortuosa, spinta dalle necessità dell’azione di governo a ripensare certi originari motivi utopistici e comunque costretta a misurare le sue grandi ambizioni con l’estrema difficoltà della situazione oggettiva».
Come un tradimento dell’internazionalismo operato dai «burocrati» e dagli «opportunisti» viene denunciata Brest Litovsk: la scelta cioè di rinunciare alla Repubblica mondiale dei soviet per concentrarsi nella difesa e nella ricostruzione della Russia entro i suoi confini e nell’elaborazione di un internazionalismo di tipo nuovo, che riconoscesse le diverse entità nazionali. Come tradimento sono bollate le disuguaglianze sociali emerse durante la NEP, che contraddicevano l’ascetismo e l’egualitarismo primitivo del comunismo di guerra ma sfidavano anche una mentalità da sempre molto radicata nel movimento comunista, ridefinendone le posizioni rispetto alla questione del rapporto tra politica ed economia (e al controllo politico della produzione), della redistribuzione del reddito e dell’eguaglianza, dei bisogni e dei diritti individuali come rispetto alla questione dello sviluppo delle forze produttive e della divisione tra lavoro intellettuale e manuale. Tradimento e restaurazione della proprietà è il mantenimento dell’istituto della famiglia, che si proponeva di riaffermare la responsabilità dei genitori verso i figli in una situazione in cui gli abbandoni di minori erano estremamente diffusi. Tradimento è il mantenimento dello Stato, l’estensione della burocrazia, la formulazione di leggi, a dispetto sia della complessità della gestione di un paese moderno, sia del ruolo di garanzia e salvaguardia che lo Stato ha, accanto a quello della repressione.
Già egli stesso oggetto di questa accusa (da parte di quelle istanze anarcoidi che si scatenano durante i primi anni della rivoluzione e che da capo dell’Armata rossa egli si era impegnato a reprimere senza pietà), Trotzkij costruirà su questo canovaccio una lotta politica ininterrotta che arriverà, dopo la morte di Lenin, alle soglie del colpo di Stato (come aveva già notato nel 1931 Curzio Malaparte). Una lotta politica che si è nel frattempo dipanata come una vera guerra civile, sull’onda di quella parola d’ordine che invita esplicitamente non solo ad una «nuova, grande rivoluzione» del proletariato (p. 73) ma anche all’uso del terrorismo: tutto è lecito contro un gruppo dirigente che è bollato come usurpatore e che viene contrastato con efficacia tramite l’infiltrazione, la cospirazione e la disinformazione, sia in Russia che nel corso della conduzione della guerra civile spagnola. Come traditore Trotzkij viene ovviamente bollato a sua volta da Stalin, il quale - in un clima di sospetto generalizzato (ma non diversa era la situazione in tutti i paesi coinvolti nei grandi conflitti di questo periodo) - individua una «convergenza almeno “oggettiva”» (p. 86) tra le trame di Trotzkij e gli interessi delle grandi potenze straniere, fino a vedere nell’opposizione, considerata «in blocco», «una minaccia per la sicurezza nazionale» e «un covo di agenti del nemico».
La verità è che nella catastrofica anarchia seguita al crollo dello zarismo - nella quale il rancore contro i responsabili della guerra si sommava alla vendetta indiscriminata per secoli di sfruttamento e servitù della gleba - e di fronte al pericolo di una dissoluzione della Russia, ormai in preda ad una «violenza selvaggia» (pp. 100-3), i bolscevichi si impongono anzitutto grazie «alla loro straordinaria capacità di “costruire lo Stato”», di «rimettere ordine» e «lottare contro il caos». «La dittatura rivoluzionaria scaturita dalla Rivoluzione d’ottobre», nota Losurdo, «assolve anche ad una funzione nazionale» perché «il potere sovietico era riuscito a conferire una nuova identità e una nuova autocoscienza ad una nazione non solo terribilmente provata, ma anche in qualche modo frastornata e alla deriva». Molto meno valgono queste spiegazioni, invece, per il periodo successivo, quando il gruppo dirigente sovietico è messo in crisi nel processo di costruzione dell’ordine nuovo dal conflitto che si apre «tra i diversi principi di legittimazione del potere». Quando cioè al «potere tradizionale» rappresentato da Stalin, che «conferiva una nuova dignità e identità alla nazione russa», si oppone il «potere carismatico» rappresentato da Trotzkii, in uno scontro di lunga durata che finisce solo con la morte di quest’ultimo e che aggrava dall’interno lo stato d’eccezione già abbondantemente indotto dall’esterno.
Tutto al contrario di quanto vuole la vulgata storiografica, in questo groviglio di contraddizioni Stalin primeggia spesso per lucidità e persino per moderazione. A più riprese egli ha cercato di imporre una qualche “normalità” alla vita politica e sociale del paese. Dopo la morte di Lenin e i successi della NEP, dice Losurdo, «la gestione del potere tende in qualche modo a diventare più liberale» (pp. 126-33) e mentre si lancia la parola d’ordine dell’«edificazione economica», si attenuano gli appelli alla «lotta di classe» e nei metodi di governo si passa dalla coercizione alla ricerca del consenso attorno alla costruzione del socialismo. Sino all’appello di Stalin – che rifiuta in questo momento l’identificazione del partito con lo Stato - a «riattivare i Soviet» e la partecipazione popolare e a dar vita ad una vera «democrazia sovietica». Non solo il «pericolo di aggressione» dovuto all’«isolamento dell’URSS», in un contesto in cui le frizioni internazionali aumentano esponenzialmente, ma anche «la pressione dal basso» e «la nostalgia per l’egualitarismo precedente» sono alla base della guerra civile che chiude questa breve parentesi e che accompagna la svolta, condivisa dai principali dirigenti politici e militari sovietici, verso la «collettivizzazione coatta dell’agricoltura» e l’«industrializazione a tappe forzate (con la conseguente radicale espansione dell’universo concentrazionario)». Ancora a metà degli anni Trenta, però, conclusa questa fase, Stalin pone nuovamente il problema di un diverso approccio che mitighi il conflitto politico e sociale. Egli arriva persino ad auspicare un «democratismo socialista» che allenti la morsa della dittatura, promuova il merito personale e favorisca lo sviluppo della società civile, sino ad attirarsi l’accusa di «liberalismo» da parte di chi vede in questa «neo-NEP» un ritorno alla «democrazia borghese» (pp. 132-4). E’ a questo punto che precipita lo scontro con Trotzkii, scontro al quale segue la mobilitazione per la Grande guerra patriottica. Alla fine della Seconda guerra mondiale, però, ecco di nuovo Stalin teorizzare una sorta di coesistenza pacifica tra i sistemi. Egli non vorrebbe esportare nella zona di influenza dell’Urss «il modello politico sovietico» e invita i dirigenti comunisti dei paesi dell’Est a «realizzare il socialismo in modo nuovo, senza la dittatura del proletariato» e tenendo conto della specificità di ogni singola realtà nazionale e della sua società civile. Sarà l’inizio della Guerra fredda, questa volta, a stroncare sul nascere e per sempre queste aperture così significative.
Insomma, commenta Losurdo, «nei tre decenni di storia della Russia sovietica diretta da Stalin l’aspetto principale non è costituito dallo sfociare della dittatura di partito nell’autocrazia, bensì dai ripetuti tentativi di passare dallo stato d’eccezione ad una condizione di relativa normalità» e in questo sforzo è proprio Stalin a svolgere il ruolo del protagonista. Questi tentativi, però, «falliscono per ragioni sia interne (l’utopia astratta e il messianismo che impediscono di riconoscersi nei risultati conseguiti) sia internazionali (la permanente minaccia che pesa sul paese scaturito dalla Rivoluzione d’ottobre)» (p. 136). «Col divampare della terza guerra civile (nell’ambito delle file bolsceviche) e col contemporaneo approssimarsi del Secondo conflitto mondiale (in Asia prima ancora che in Europa)», conclude, «questa serie di fallimenti sfocia alfine nell’avvento dell’autocrazia, esercitata da un leader oggetto di un vero e proprio culto». E’ un percorso dialettico rispetto al quale corre in parallelo la storia dell’«universo concentrazionario» sovietico, un fenomeno che «non presenta un andamento rettilineo e un quadro omogeneo» ma che «attraversò cicli di relativa crudeltà e relativa umanità» (è una citazione tratta non a caso dalla studiosa statunitense Applebaum), passando per «fasi relativamente “prospere” e “liberali”» (p. 149) a «fasi di netto peggioramento della condizione economica e giuridica dei detenuti». Costantemente condizionato dallo stato d’eccezione e caratterizzato dall’«ossessione produttiva» e da quella «pedagogica», ma non certo da quella di sterminio, il gulag sovietico si differenzia comunque nettamente dal Lager nazista, che era stato «sin dagli inizi il risultato di un ben determinato progetto politico e di una ben determinata visione ideologica» (p. 156). Quante «Siberie», a volte nemmeno conosciute, hanno poi avuto gli Stati Uniti e l’Inghilterra liberale nel corso della loro storia anche recente?
Non è dunque quella di «totalitarismo» - come volevano la Arendt (ma ancora prima lo stesso Trotzkij) e la storiografia improntata alla Dottrina Truman - la categoria sotto la quale sussumere la storia dell’Urss e dell’epoca di Stalin. Semmai bisogna vedere qui la progressiva e contraddittoria affermazione di una «dittatura sviluppista che cerca di mobilitare e “rieducare” tutte le forze in funzione del superamento della secolare arretratezza» della Russia, in uno sforzo immane volto a bruciare le tappe dello sviluppo e concentrare in pochi anni ciò che i paesi più avanzati avevano realizzato in diversi secoli. Uno sforzo nel quale, però, «il terrore si intreccia con l’emancipazione di nazionalità oppresse nonché con una forte mobilità sociale e con l’accesso all’istruzione, alla cultura e persino a posti di responsabilità e di direzione di strati sociali sino a quel momento del tutto emarginati» (p. 157) e che non comporta affatto la cancellazione di qualsiasi autonomia della società civile, come la definizione di «totalitarismo» vorrebbe.

Ecco allora che dietro la tragedia storica si delineano i contorni di una tragedia filosofica ancora più profonda. E’ la tragedia dell’universalismo moderno e cioè della formidabile carica emancipatrice di quei valori di cui si erano fatti portatori i dirigenti bolscevichi, come già era stato per i giacobini. Di fronte alle lacerazioni del corso del mondo - e di un mondo che appare estremamente lontano da ogni ideale di pace, giustizia sociale e libertà -. questo universalismo si pensa come il positivo assoluto. Proprio per questo, esso deve però passare per l’assoluta negazione e si propone di annientare tutti quegli interessi e corpi sociali particolari che sono in contraddizione con il proprio afflato morale e ne ostacolano il cammino. Ecco, ad esempio, che in nome dell’immediato affratellamento del proletariato si contesta la necessità di costruire la nazione e lo Stato sul terreno politico ed economico più prossimo, realizzando concretamente in essi e per quanto qui ed ora possibile - attraverso una trasformazione tangibile dello stato di cose esistente che sconta inevitabilmente errori e approssimazioni - l’emancipazione delle classi subalterne e delle nazionalità sino a quel momento represse. Ecco che di fronte alle difficoltà incontrate dal processo di costruzione del socialismo si scatena un conflitto generalizzato che mette tutti contro tutti e conduce al terrore.
E’ un «universalismo astratto» (pp. 112-3), denunciato già a suo tempo da Hegel, nel quale «l’universalità agognata è quella che si presenta immediatamente nella sua incontaminata purezza, senza passare attraverso la mediazione e l’intreccio con la particolarità», dice Losurdo, e proprio «questo culto dell’universalità astratta» spinge a «gridare al tradimento ogni volta che la particolarità si vede riconosciuti i suoi diritti o la sua forza». Al contrario, c’è universalità reale, universalità realmente compiuta, solo nella forma dell’«utopia concreta» e cioè solo nella misura in cui l’universale sa realizzarsi di volta in volta nel particolare, seppure in maniera imperfetta e ancora approssimativa, confrontandosi con la storia reale e con i problemi economici e politici che essa pone. Passando in altre parole per la mediazione e il lavoro del negativo. La costruzione di un ordine nuovo sconta inevitabilmente la «contaminazione» (pp. 116-21) con le impurità degli interessi particolari; ma proprio in quanto si vuole universale, essa deve essere capace di realizzarsi attraverso tali interessi e tramite il governo delle contraddizioni ad essi immanenti. Deve cioè sapersi impegnare in un continuo «processo di apprendimento», nel quale «imparare a governare significa imparare a dare un contenuto concreto all’universalità».
La tragedia dell’epoca di Stalin, che non è giusto trasformare né in una commedia degli equivoci né in una farsa storiografica, è in questo senso la tragedia della storia in quanto tale, nella quale spesso tutte le parti in gioco hanno le loro ragioni e nessuno può pontificare con piglio manicheo. E’ quella tragedia, per capirci, che fa sì che quel grandioso processo di emancipazione consapevole, collettiva e organizzata che costituisce il cuore del progetto della modernità finisca molto spesso per passare attraverso l’urto del negativo, della contraddizione oggettiva e del dolore soggettivo. Il terrore dunque, sì, ma accanto ad esso – e per tanti aspetti proprio attraverso esso - la fuoriuscita dalla servitù della gleba di un popolo che non conosceva la parola «individuo» e portava sulle spalle il peso di secoli di sfruttamento. Il terrore, sì, ma l’avvio di un percorso emulativo che libererà il mondo coloniale dalle catene delle grandi potenze e cioè da un terrore di non minore portata che era stato all’origine della ricchezza e del progresso delle nazioni “civili”. Il terrore, sì, ma l’innesco di un processo politico e culturale grandioso che si è caricato delle aspettative e delle speranze di un movimento mondiale di milioni e milioni di persone. Il terrore, sì, ma la distruzione di quell’orrore ben peggiore che fonda nella razza la superiorità dell’uomo sull’uomo. Il terrore, sì, ma il concomitante ed essenziale stimolo alla costruzione della democrazia moderna nello stesso Occidente liberale…
Una grande tragedia, come si vede, alla quale non è estranea nemmeno quella coscienza morale che di fronte al terrore si dissocia e vorrebbe ribadire che le proprie mani non sono sporche di sangue. E però nessun individuo, gruppo sociale, nazione, movimento politico e ideologia è al riparo dal rischio della lacerazione, perché le contraddizioni e i dilemmi della morale sono inscritti in primo luogo nelle cose stesse: la storia ci costringe di continuo a scegliere, esponendoci per lo più a sacrificare per ragioni legittime altre ragioni che possiedono anch’esse almeno una parte di fondatezza. Proprio questa consapevolezza tragica della storia è – per concludere queste considerazioni – il senso di un lavoro filosofico e storiografico che raggiunge qui un punto cruciale. Al contempo, esso costituisce un contributo importantissimo alla rifondazione del materialismo storico in quanto lo rinnova nei contenuti, nel metodo e soprattutto nella forma di coscienza ad esso soggiacente.

Nessun commento:

Posta un commento