martedì 3 aprile 2012

A proposito dei fatti d'Ungheria

Il 1956, la questione nazionale e la guerra fredda
Domenico Losurdo
(ed. orig. in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 1996, VIII, La crepa nel muro: Ungheria 1956, Fondazione Ugo Spirito, Roma, 1999, pp. 133-158; ripreso in «Marxismo oggi», 1997/2, pp. 72-95).




1. Una, due, tre dottrine Monroe

Mentre, respingendo e ricacciando indietro l’esercito hitleriano d’invasione, l’Armata Rossa avanza in Europa orientale, Stalin osserva:
«Questa guerra è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale. Ciascuno impone il suo sistema sociale, fin dove riesce ad arrivare il suo esercito; non potrebbe essere diversamente» (Gilas, 1978, p. 121).
Pochi mesi dopo la conclusione del gigantesco conflitto, nel 1946, Ernest Bevin, personalità di primo piano del partito laburista e ministro inglese degli esteri, vede il mondo tendenzialmente diviso «in sfere d’influenza ovvero in quelle che possono essere definite le tre grandi dottrine Monroe», in un modo o nell’altro rivendicate e fatte valere rispettivamente dagli USA, dall’URSS e dalla Gran Bretagna (H. Thomas, 1988, p. 296). Nel 1961, nel corso di un colloquio svoltosi a Vienna, Kennedy, reduce dall’ingloriosa avventura della Baia dei Porci, protesta con Kruscev per gli esiti e il dinamismo della rivoluzione cubana: gli USA non possono tollerare un regime che pretenda di intaccare la loro egemonia nell’«emisfero occidentale», in una loro «area di interesse vitale», così come l’URSS non tollererebbe «un governo pro-americano a Varsavia»; se si vuole evitare l’olocausto nucleare, più ancora che alla volontà dei popoli bisogna prestare attenzione al mantenimento dell’«esistente equilibrio di potere»; possono essere tollerati solo cambiamenti che non «alterino la bilancia del potere mondiale» (Schlesinger jr., 1967, p. 338). Non sembrano esserci differenze rilevanti nella visione dei rapporti internazionali espressa dai tre statisti, nessuno dei quali ha dubbi sul fatto che nella Monroe sovietica rientra a pieno titolo l’Ungheria, che con Horty ha partecipato all’aggressione hitleriana e che successivamente è stata liberata e occupata dall’Armata Rossa. Nel momento in cui parla il presidente americano, è tuttavia diventato chiaro per tutti, anche per i dirigenti britannici, che le sfere d’influenze sono in realtà o si sono ormai ridotte a due.
All’interno di ognuna di queste due Monroe è il paese guida a decidere il sistema politico-sociale. La vecchia regola del periodo delle guerre di religione (cuius regio eius religio) sembra ora rivivere appena trasformata: cuius regio eius oeconomia (Schmitt, 1991, p. 409). Tra le due sfere d’influenza il rapporto è tutt’altro che pacifico. Nel 1953, in occasione del suo discorso d’insediamento presidenziale, Eisenhower così descrive la situazione internazionale:
«La libertà è in lotta contro la schiavitù; la luce contro le tenebre [...] Ciò conferisce una comune dignità al soldato francese che muore in Indocina, al soldato britannico ucciso in Malesia, alla vita americana donata in Corea» (in Lott, 1994, p. 304).
   Non c’è posto qui per l’autonomo sviluppo di lotte per l’indipendenza e la liberazione nazionale. Sia pur ovviamente rovesciando il giudizio di valore, i dirigenti sovietici condividono questa lettura dualistica e manichea del mondo. Tutto ruota attorno a due schieramenti internazionali contrapposti, i quali sono o vorrebbero essere ferreamente centralizzati. Ognuno dei due grandi antagonisti rivendica la direzione sul proprio campo cercando di presentarla nella luce più favorevole possibile: «Noi americani» -dichiara Eisenhower- «conosciamo e rispettiamo la differenza tra leadership mondiale e imperialismo» (in Lott, 1994, p. 304). Ancora più rassicurante vuole essere Stalin che, un anno prima, richiama sì l’attenzione sul «compito d’avanguardia» e di «”reparto d’assalto” del movimento comunista internazionale» proprio del suo partito e del suo paese ma per precisare che, dopo la vittoria della rivoluzione in Europa e in Asia, il PCUS e l’URSS possono finalmente svolgere questo ruolo di direzione assieme ad altri partiti e paesi comunisti (Stalin, 1953, pp. 151-2). Per ironia della storia, tra i paesi ormai entrati a far parte dell’avanguardia rivoluzionaria internazionale, Stalin annovera anche l’Ungheria e la Cecoslovacchia che più tardi il Grande Fratello richiamerà brutalmente all’ordine.
Non che i dirigenti statunitensi e sovietici non siano consapevoli della persistenza di contraddizioni nazionali all’interno dei due schieramenti. Agli inizi degli anni ‘50, mentre il segretario di Stato americano Forster Dulles esprime la sua solidarietà alle «nazioni prigioniere» (captive nations) dell’Europa orientale, Stalin cerca di sfruttare in senso anti-americano la questione nazionale non solo nei paesi coloniali o ex-coloniali ma nella stessa Europa occidentale, chiamando i partiti comunisti a «risollevare» la «bandiera della indipendenza nazionale e della sovranità nazionale [...] gettata a mare» dai governanti borghesi (Stalin, 1953, pp. 153-4). Da una parte e dall’altra la questione nazionale viene percepita e agitata solo come strumento per mettere in crisi il campo nemico. Coloro invece che la fanno valere anche all’interno del campo in cui sono collocati vengono condannati in quanto affetti da una visione provinciale e grettamente nazionalistica che, in modo indiretto o diretto e consapevole, fa il gioco del nemico. Se l‘URSS chiama alla vigilanza e alla lotta contro i titoisti, gi USA s’impegnano a isolare, qualche anno più tardi, i gollisti.
I due schieramenti sono impegnati in un confronto senza esclusione di colpi. Eisenhower condivide la conclusione cui è giunto il generale James Doolittle:
«E’ ora chiaro che siamo di fronte ad un nemico il cui obiettivo dichiarato è il dominio mondiale... Non ci sono regole in tale gioco. Non sono più valide le norme di comportamento umano sinora accettabili... Dobbiamo... imparare a sovvertire, sabotare e distruggere i nostri nemici con metodi più intelligenti, più sofisticati e più efficaci di quelli da essi usati contro di noi» (in Ambrose, 1991, p. 377).
E’ appena il caso di aggiungere che ad un’analoga conclusione pervengono anche i dirigenti sovietici. E’ scoppiata una «guerra fredda», che rischia ad ogni momento di divenire così calda da fondere o quasi il pianeta. Nel gennaio del 1952, per sbloccare la situazione di stallo e concludere rapidamente la guerra di Corea che ancora imperversa, Truman accarezza un’idea radicale che trascrive anche in una nota di diario: si potrebbe lanciare un ultimatum a URSS e Cina Popolare, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza «significa che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock, Pechino, Shangai, Port Arthur, Dairen, Odessa, Stalingrado e ogni impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica verrebbe eliminato» (eliminated) (in Sherry, 1995, p. 182). Non si tratta solo di una riflessione privata: a cavallo della guerra di Corea, in più occasioni l’arma atomica viene brandita contro la Repubblica Popolare Cinese; e la minaccia risulta tanto più credibile a causa del ricordo di Hiroshima e Nagasaki, quei due bombardamenti atomici decisi alla vigilia della resa del Giappone e che, secondo non pochi storici, costituiscono in realtà il vero inizio della «guerra fredda».

2. Rivoluzione nazionale, titoismo e logica della guerra fredda

 L’anno prima dello scoppio della rivoluzione ungherese, nell’impegnarsi in un grande programma di costruzione di nuove autostrade, Eisenhower vede in esse anche uno strumento per evacuare rapidamente le città in caso di confronto nucleare: l‘attuale sistema -ammonisce il presidente americano- «sarebbe solo fonte di una congestione mortale» (Sherry, 1995, p. 207). Gli USA hanno perso il monopolio atomico ma l’iniziativa strategica continua ad essere saldamente nelle loro mani. Con riferimento all’Europa orientale, nel corso della campagna elettorale del 1952, Dulles critica duramente la «negativa politica del “contenimento” e “stallo”» che rischia di ridurre alla disperazione le «nazioni prigioniere». Gli Stati Uniti devono invece far «sapere pubblicamente che essi desiderano e si attendono l’avvento della liberazione». E’ dunque necessaria «una politica di audacia»: A Policy of Boldness suona il titolo dell’articolo pubblicato su Life  (in Kissinger, 1994, p. 553). Poco dopo, parlando al Senato in qualità di segretario di Stato designato, Dulles chiarisce ulteriormente il suo pensiero: si tratta di «approfittare di ogni occasione che si presenti» portando avanti la causa della «liberazione» mediante comportamenti e «processi al limite della guerra» (short of war) (in Hofstadter e Hofstadter, 1982, vol. III, p. 431). Probabilmente pensava anche all’intensificazione di operazioni, in atto già da alcuni anni, di reclutamento di «battaglioni di emigrati» da infiltrare in Europa orientale per compiere azioni di sabotaggio e stimolare o appoggiare rivolte armate. Tentativi del genere erano stati già effettuati, peraltro senza successo, in direzione dell’Albania. Ma, «alla fine del 1952, i radiomessaggi segreti provenienti dall’Albania sembravano promettenti: gli agenti riferivano di progressi nell’organizzazione di un movimento di resistenza e chiedevano un maggiore aiuto», che gli viene prontamente accordato, senza che ciò eviti il fallimento totale dell’operazione (E. Thomas, 1995, pp. 34-9, 70 e 142).
A consacrare sul piano ideologico questa offensiva politico-militare sembra essere il Vaticano. Di «Crociata delle Nazioni Unite» aveva parlato Churchill in una lettera a Eisenhower del 19 marzo 1953 (Boyle, 1990, p. 33). Ma ora questo tema sembra assumere una connotazione esplicitamente teologica. Nell’ottobre 1956, dunque all’immediata vigilia dell’insurrezione ungherese, Pio XII beatifica Innocenzo XI, che alla fine del Seicento aveva rinverdito la tradizione delle Crociate, chiamando le potenze europee e cristiane (compresa l’Inghliterra protestante di Guglielmo III d’Orange) a fronteggiare unite l’Impero ottomano. L’attualità del suo magistero viene esplicitamente sottolineata da papa Pacelli: la vittoria dell’Europa riunita sotto il «vessillo cristiano» liberò Vienna e pose le premesse della successiva liberazione di Budapest (Riccardi, 1992, pp. 166-7). Luigi XI, che con la sua spregiudicata Realpolitik, aveva in tale occasione incrinato la compattezza della Crociata, sembra ora reincarnarsi nei politici occidentali disposti al compromesso nei confronti dell’URSS ovvero riluttanti ad abbracciare la politica della «liberazione».
Il paragone tra comunismo e Islam diviene esplicito. Alla fine del 1956, il cardinale Tisserant, decano del S. Collegio, proclama, avendo in mente sempre Innocenzo XI:
«La Cristianità non è oggi meno minacciata gravemente che nei giorni dell’assedio di Vienna, quando Buda serviva di base militare ad una potenza mossa anch’essa da una ideologia conquistatrice, intesa a portare l’ultimo colpo ad un Impero, che non era soltanto germanico, ma anche Sacro e Romano» (Riccardi, 1992, p. 165).
Confidandosi poco dopo con l’ambasciatore belga presso la S. Sede, il cardinale Tisserant sottolinea che «la dottrina di Maometto ha [...] profonde affinità con quella dei Sovieti» (Riccardi, 1992, p. 174).
 La «politica di audacia» teorizzata da Dulles investe anche il paese-guida del campo socialista. Il 4 luglio 1956, Eisenhower dà il via ai voli di ricognizione sull’URSS che in questo momento (e sino al 1960) non è in grado di abbattere gli U-2. Le rinnovate proteste per la violazione dello spazio aereo e della sovranità territoriale non sortiscono alcun effetto, anzi accrescono il senso di frustrazione e umiliazione nazionale e il senso altresì di insicurezza, tanto più che questi voli producono, per dirla con uno storico americano della CIA, «una ricca messe di informazioni non solo sui progressi sovietici nelle armi strategiche ma anche sulle basi navali, i complessi industriali, le linee ferroviarie e i dettagli geografici necessari per produrre mappe dettagliate ad uso dell’aviazione statunitense» (O’Toole, 1991, pp. 466-7).
 E’ in questo contesto che bisogna collocare gli avvenimenti in Ungheria. Era inevitabile il loro esito catastrofico? Lecita e forse doverosa è la domanda: a suggerirla è uno storico che può essere considerato d’eccezione per il fatto che è stato al tempo stesso uno statista di primo piano. Ricostruiamo sinteticamente gli avvenimenti sulla scorta di Kissinger. Prima di esplodere in Ungheria, la rivoluzione nazionale fa le sue prove già in Polonia. Ma qui, con la formazione del governo Gomulka, si giunge ad un compromesso che elimina gli aspetti più umilianti e odiosi del controllo esercitato dal Grande Fratello.
 Per qualche tempo, un compromesso analogo e forse più avanzato sembra delinearsi a Budapest, tanto più che in questo momento l‘URSS ha iniziato una marcia di avvicinamento alla Jugoslavia di Tito; pare così delinearsi un’articolazione del campo socialista più rispettosa dell’autonomia nazionale dei singoli paesi.  Il 28 ottobre i carri armati del Grande Fratello cominciano a ritirarsi: il leader sovietico appare rassegnato alla nascita di un’«Ungheria titoista» (Kissinger, 1994, pp. 556-7). Documenti e informazioni provenienti dalla Russia confermano i dubbi e le incertezze che hanno preceduto l’uso della forza. La trascrizione lasciataci da V. N. Malin (capo del dipartimento generale del CC del PCUS) del dibattito sviluppatosi ai vertici del potere sovietico e nel corso delle consultazioni coi dirigenti dei partiti «fratelli» ci rivelano un Kruscev consapevole dell’appoggio fornito dagli «operai» alla rivolta, preoccupato di non esser messo sullo stesso piano di francesi e inglesi (in quel momento scatenati in Egitto) e che, ancora il 30 ottobre, prende in considerazione la «via pacifica» del «ritiro delle truppe» e dei «negoziati» (in Garton Ash, 1996, p. 18). Perché invece, il 4 novembre ha luogo l’intervento militare? E’ improbabile che a determinarlo siano state solo le discussioni all’interno del PCUS e del movimento comunista internazionale. A incoragggiarlo devono aver contribuito anche gli avvenimenti in Medio Oriente. Essi distraevano dall’Europa orientale l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Inoltre: perché mai l’URSS avrebbe dovuto dar prova di moderazione, quando Gran Bretagna e Francia, bloccate col veto le risoluzioni dell’ONU, procedevano, di concerto con Israele, nel loro attacco contro l‘Egitto?
Ma, per comprendere le ragioni dell’intervento sovietico, è importante soprattutto analizzare lo sviluppo degli avvenimenti in Ungheria. Nonostante il compromesso di tipo «titoista», che sembra per qualche tempo delinearsi, la rivolta continua. Ad alimentarla provvedono anche le trasmissioni-radio provenienti dall’Occidente. Esse sono un aspetto essenziale della guerra fredda. Più ancora che uno strumento di propaganda, esse costituiscono un’arma per entrambe le parti impegnate nel conflitto: la costruzione di un efficiente «Psychological Warfare Workshop» è uno dei primi compiti che si assegna la CIA (E. Thomas, 1995, p. 33). Già nel novembre 1945, l’ambasciatore americano a Mosca, Harriman, aveva invocato l’installazione di potenti stazioni radio capaci di trasmettere in tutte le diverse lingue dell’Unione Sovietica (H. Thomas, 1988, p. 223). Nei giorni della rivolta ungherese, decisamente incendiario è il tono di Radio Free Europe, che può contare, oltre che sulla potente centrale di Monaco, su una dozzina di piccole stazioni-radio installate clandestinamente in Ungheria (E. Thomas, 1995, p. 142). Il 29 ottobre così viene commentata l’ascesa di qualche giorno prima di Imre Nagy alla carica di primo ministro:
«Imre Nagy e i suoi seguaci desiderano riprendere e riattualizzare l’episodio del Cavallo di Troia. Hanno bisogno di un cessate il fuoco in modo che l’attuale governo al potere a Budapest possa mantenere la sua posizione il più a lungo possibile. Coloro che stanno combattendo per la libertà non devono perdere di vista neppure per un attimo i piani messi in atto dal governo per contrastarli».
Il giorno dopo, e cioè il 30 ottobre, Imre Nagy mette fine al monopolio politico comunista e al regime del partito unico, formando una coalizione di governo in cui sono presenti tutti i partiti che hanno partecipato alle elezioni del 1946, quelle precedenti l’avvento del regime comunista. La rivoluzione nazionale sembra aver conseguito i suoi obiettivi essenziali, ma Radio Free Europe continua ad essere implacabile:
«Il ministero della Difesa e il ministero degli Interni sono ancora in mano comunista. Combattenti della Libertà, non tollerate che continui questo stato di cose. Non appendete al muro le vostre armi» (in Kissinger, 1994, p. 557).
Più tardi Nagy verrà «giustiziato» dai sovietici, ma in questo momento a scatenare una forsennata campagna d’odio contro di lui sono le trasmissioni radio della CIA. Nessun credito, anzi nessuna tregua può essere concessa ad un politico che ha «le mani sporche di sangue». E ancora:
«Dove sono i traditori [...] Chi sono gli assassini? Sono Imre Nagy e il suo governo (...) Solo il cardinale Mindszenty ha parlato impavido [...] Imre Nagy è un moscovita sino in fondo» (in Garton Ash, 1996, p. 19).
 Con involontario umorismo, l’attuale presidente di Radio Free Europe/ Radio Liberty si rammarica per essere stata «fredda», quarant’anni fa, «nei confronti del governo Nagy»! (Klose, 1996). Ma torniamo allo sviluppo degli avvenimenti del 1956. L’URSS interviene quando giunge alla conclusione che Nagy è solo una figura di transizione, dietro la quale si agitano e stanno per prendere il sopravvento ambienti e personaggi ben più inquietanti. Gli incessanti incitamenti alla violenza di Radio Free Europe sembrano godere di particolare autorevolezza, per il fatto che nessun appello alla moderazione e al realismo politico e geopolitico proviene da Washington. Osserva Kissinger:
«Gli Stati Uniti non spiegano mai i limiti dell’appoggio americano all’appena nato e inesperto governo ungherese. Né mai si avvalgono dei molteplici canali di cui dispongono per dare consigli agli ungheresi su come consolidare i loro successi prima di intraprendere passi ulteriori e irrevocabili» (Kissinger, 1994, p. 563).
Tutto ciò risulta tanto più strano e sorprendente per il fatto che i dirigenti americani sembrano non fare alcuno sforzo per scoraggiare l’intervento sovietico che pure, dinanzi all’evidente collasso del regime comunista e alla grave crisi dell’ordinamento sancito a Jalta, si profila sempre più nettamente all’orizzonte:
«Nessun monito fu lanciato a Mosca che l’uso della forza avrebbe messo in pericolo le sue relazioni con Washington [...] In ogni caso, l’amministrazione Eisenhower non fece nessuno sforzo per alzare il prezzo dell’intervento sovietico [...] Il Cremlino non pagò quasi alcun prezzo per le sue azioni, neppure sul piano economico» (Kissinger, 1994, pp. 557-563).
Nel suo intervento al Senato, Dulles aveva affermato che la politica americana di «liberazione» doveva sì essere portata avanti con decisione evitando però di provocare «una guerra generale» oppure «un’insurrezione che verrebbe repressa con violenza sanguinosa» (in Hofstadter e Hofstadter, 1982, vol. III, p. 431). E, invece, nei giorni della rivolta, non solo incessanti risultano gli appelli di Radio Free Europe alla violenza, ma non mancano neppure accenni a possibili aiuti che sarebbero venuti dall’Occidente. Ben si comprende allora che, in occasione di un recente convegno a Budapest sugli avvenimenti di quarant’anni fa, un vecchio combattente del 1956 abbia considerato le trasmissioni radio della CIA responsabili della «morte di migliaia di giovani ungheresi» (Garton Ash, 1996, p. 19).
Comprensibile è il risentimento, ed esso comunque evidenzia un problema reale: il netto contrasto tra l’oltranzismo delle trasmissioni radio e l’estrema cautela dell’amministrazione USA dev’essere messo sul conto della disorganizzazione, del mancato coordinamento tra dirigenza politica e direzione di Radio Free Europe? Non sembra molto convincente questa tesi di Kissinger, soprattutto se si tien conto del fatto che a dirigere la CIA è in questo momento Allen Dulles, il fratello del segretario di Stato John Foster. In ogni caso, la presunta «disorganizzazione» sembra rivelare una logica, e una logica persino assai stringente: ben più dell’emergere di un’Ungheria titoista, alla causa della vittoria americana nella guerra fredda sembra essere funzionale uno scontro violento e senza prospettive, la repressione sanguinosa della rivoluzione nazionale.
 Osserva ancora Kissinger: «Dopo un periodo di terrore sanguinario, Kadar si mosse gradualmente in direzione degli obiettivi tracciati da Nagy, sia pur fermandosi immediatamente al di qua del ritiro dal Patto di Varsavia» (Kissinger, 1994, p. 567). Ma, intanto, l’URSS si è largamente screditata agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, mentre all’interno del «campo socialista» le contraddizioni nazionali diventano sempre più acute.

3. Movimento comunista e questione nazionale

La vicenda storica dell’Ungheria si configura come la sintesi e la metafora della vicenda storica del movimento comunista internazionale nel suo complesso. Nel marzo del 1919, Bela Kun giunge al potere sull’onda di un largo consenso nazionale, che abbraccia anche la borghesia e che vede nei comunisti l’unica forza capace di salvare l’integrità territoriale del paese minacciata dalle manovre dell’Intesa impegnata a creare un cordone sanitario anti-URSS, anche dando via libera alle mire annessionistiche della Cecoslovacchia e della Romania (Kolko, 1994, p. 159); è stato giustamente osservato che «questa rivoluzione pacifica fu il prodotto di un orgoglio nazionale ferito» (Mayer, 1967, p. 554). Alla vigilia dell’avvento al potere di Bela Kun, Alexander Garbai, uno dei leaders del partito socialista, dichiara:
«A Parigi sono impegnati in una pace imperialistica [...] Dall’Ovest non possiamo attenderci nulla se non una pace-diktat [...] L’Intesa ci ha costretti a seguire un nuovo corso che grazie all’Est ci assicurerà quello che l’Ovest ci ha negato» (in Mayer, 1967, pp. 551-2).
Lo stesso Bela Kun vede una «fase nazionale» della rivoluzione ungherese precedere la «rivoluzione sociale» propriamente detta (in Mayer, 1967, p. 540). Circa quarant’anni dopo, le parti sembrano rovesciarsi: a parlare, giustamente, di «rivoluzione nazionale» è, il 1 novembre 1956, Imre Nagy (in Kissinger, 1994, p. 561); e gli ungheresi credono di poterla realizzare guardando questa volta ad Ovest. E come dopo la prima guerra mondiale, i sentimenti nazionali dell’Ungheria vengono umiliati (e successivamente il governo di Bela Kun viene rovesciato) in nome del cordone sanitario antisovietico, così ora questi medesimi sentimenti nazionali vengono brutalmente calpestati in nome del controcordone sanitario di cui l’URSS avverte il bisogno contro la Germania e la NATO.
La parabola del comunismo ungherese è la parabola del movimento comunista internazionale. Un paradosso ovvero una contraddizione di fondo attraversa la sua storia. La sua formazione e il suo sviluppo non si possono comprendere senza la presa di coscienza dell’«enorme importanza della questione nazionale» (Lenin, 1955, vol. XXI, p. 90). L’espressione è di Lenin il quale, in polemica con Kautstky sottolinea che la questione nazionale può manifestarsi non solo nei paesi coloniali ma anche in Europa e persino nel cuore stesso dell’Europa e della metropoli capitalistica più avanzata. L’espansione del movimento comunista coincide con la sua capacità di mettersi alla testa dei movimenti di liberazione nazionale: la pagina più epica è forse costituita dalla Lunga Marcia dei comunisti cinesi che compiono migliaia di chilometri in condizioni drammatiche per andare a combattere gli invasori giapponesi; ma si pensi anche alla «grande guerra patriottica» contro l'esercito hitleriano (impegnato a costruire ad Est l'impero coloniale del Terzo Reich) la quale consente a Stalin di ricucire, almeno per qualche tempo, gli strappi e le lacerazioni provocati dalla politica di terrore da lui sviluppata anche nei confronti delle minoranze nazionali. La questione nazionale fa sentire il suo peso negli stessi paesi capitalistici sviluppati. Nel 1916, nel ribadire il carattere imperialista del primo conflitto mondiale, Lenin tuttavia osserva che se esso fosse terminato «con vittorie di tipo napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di vita autonoma [...], allora sarebbe possibile in Europa una grande guerra nazionale» (Lenin, 1955, vol. XXII, p. 308). La situazione qui evocata finisce col verificarsi circa venticinque anni dopo, e il fortissimo radicamento popolare dei comunisti in paesi come la Francia e l'Italia non si può spiegare senza la loro capacità di interpretare e sviluppare la Resistenza partigiana anche come un movimento di liberazione nazionale.
 Epperò, la questione nazionale, che emerge in modo così drammatico nella rivolta ungherese, svolge un ruolo decisivo nella disssoluzione del «campo socialista» e della stessa Unione Sovietica. Diamo uno sguardo ai momenti più gravi di crisi e di discredito del «socialismo reale»: 1948 (rottura dell'URSS con la Jugoslavia); 1956 (invasione dell'Ungheria); 1968 (invasione della Cecoslovacchia); 1981 (legge marziale in Polonia per prevenire un possibile intervento «fraterno» dell'URSS e tenere a freno un movimento di opposizione che trova largo seguito anche facendo appello all'identità nazionale conculcata dal Grande fratello). Queste crisi hanno in comune la centralità della questione nazionale. La dissoluzione del campo socialista è iniziata non a caso alla periferia dell'impero, nei paesi da tempo insofferenti della sovranità limitata loro imposta; anche all'interno dell'URSS, prima ancora dell'oscuro «golpe» dell'agosto 1991, la spinta decisiva al crollo finale è venuta dall'agitazione dei paesi baltici, nei quali il socialismo era stato «esportato» nel 1939-40: in un certo senso, la questione nazionale, che ha potentemente favorito la vittoria della rivoluzione d'Ottobre, ha segnato anche la conclusione del ciclo storico apertosi con essa.
Nel tracciare un bilancio critico e autocritico, Fidel Castro è giunto a questa significativa conclusione: «Noi socialisti abbiamo commesso un errore nel sottovalutare la forza del nazionalismo e della religione» (Schlesinger jr., 1992, p. 25) (si tenga presente che la stessa religione può costituire un momento essenziale della costruzione dell’identità nazionale: si pensi a paesi come la Polonia e l’Irlanda; ma oggi, forse, un discorso analogo può esser fatto anche in riferimento al mondo islamico). Ma forse conviene qui richiamare una pagina di straordinaria lucidità e lungimiranza di Lenin, quella in cui il dirigente bolscevico sottolinea la persistenza della questione nazionale anche dopo il passaggio di un paese o più paesi al socialismo: è ben possibile che il proletariato vittorioso continui a esprimere tendenze scioviniste o egemoniche, e allora «sono possibili sia delle rivoluzioni  – contro lo Stato socialista – sia delle guerre» (Lenin, 1955, vol. XXII, p. 350).
Dell’«enorme importanza della questione nazionale» anche nell’ambito del campo socialista non sembra rendersi conto Togliatti che si associa alla condanna infamante di Tito nel 1948 e di Nagy nel 1956. Ma – sia detto una volta per sempre – gli oppositori all’interno del PCI non danno certo prova di maggiore lucidità, anzi rivelano un grado di comprensione decisamente inferiore. Sia pur liquidandola come semplice Vandea, il dirigente comunista ha la consapevolezza del fatto che la rivoluzione nazionale ungherese tende, in quel momento e in quel contesto, ad essere egemonizzata da forze che certo non si limitano a mettere in discussione lo «stalinismo». Questa presa d’atto appare invece ai «centouno» intellettuali che firmano un manifesto di protesta come un voler «calunniare la classe operaia ungherese» (in Ajello, 1979, p. 537). Ad un’analisi storica concreta, sia pur viziata dalla sottovalutazione della questione nazionale, veniva così contrapposta la visione edificante di una classe operaia che, con la sua sola presenza fisica, garantiva il carattere progressista e socialista del movimento. Risultano oggi chiari gli elementi costitutivi della tragedia del 1956: da un lato ci sono i paesi dell’Europa orientale da sempre minacciati nella loro integrità e persino nella loro esistenza dai vicini più potenti e che vedono calpestato anche dall’URSS il principio dell’indipendenza nazionale e della sovranità statale; dall’altro lato c’è per l’appunto l’Unione Sovietica che nell’«esportazione» del socialismo individua anche uno strumento per allargare e consolidare il controcordone sanitario di cui ritiene di aver disperatamente bisogno dopo l‘esperienza del secondo conflitto mondiale e dopo lo scoppio della guerra fredda. Alla dura realtà di questo conflitto, il manifesto dei «centouno» sostituisce l’immagine autoconsolatoria di un intero popolo che nel nome del socialismo autentico si ribella contro lo «stalinismo», contro un regime che sembra affondare le sue radici esclusivamente nei capricci di un tiranno.
C’è un episodio rivelatore. Nel pubblicare nel 1965 il suo Scrittori e popolo, Asor Rosa, che dieci anni prima ha rotto col partito comunista proprio sull’onda dell’«indimenticabile» 1956,  condanna «la politica di unità nazionale» seguita dal PCI durante la Resistenza, «quella strategia, che porterà più tardi a concepire la via italiana al socialismo come necessariamente legata all’attuazione della Costituzione e delle riforme borghesi». Togliatti che, di ritorno in Italia dal lungo esilio, afferma che «la classe operaia non è mai stata estranea agli interessi della Nazione»; i «comunisti togliattiani e gramsciani» nel loro complesso vengono accusati per un verso di ripetere categorie e parole d’ordine staliniane, per un altro verso di essere «gli ultimi attardati esponenti» del «Risorgimento democratico, garibaldino, mazziniano, carducciano» (Asor Rosa, 1969, pp. 156-7 e nota). Riletta oggi, questa requisitoria può suscitare solo un sospiro: ah se Stalin e Togliatti si fossero attenuti coerentemente all’orientamento che in modo così aspro viene loro addebitato! Invece di mettere in causa l’oblio della questione nazionale in Europa orientale, Asor Rosa e molti altri «dissidenti» rimproverano a Stalin e Togliatti l‘attenzione da loro riservata alla questione nazionale in Occidente!
A questa visione, che rimuove o ignora sia la geopolitica che la storia, non poteva certo aderire il segretario del PCI. Questi aveva in qualche modo sentore del fatto che «unità» speciali al servizio della CIA «erano già all’opera a Budapest al momento della rivolta e assistevano gli insorti ungheresi, mentre altre si erano infiltrate a Praga e Bucarest» (O’Toole, 1991, p. 470); il dirigente comunista sapeva che la CIA aveva ereditato l’organizzazione spionistica del Terzo Reich in Europa orientale e che assieme a quest’ultima aveva organizzato «operazioni paramilitari congiunte in Europa orientale e in Unione Sovietica nei tardi anni ‘40 e nei primi anni ‘50» (E. Thomas, 1995; pp. 35-6; O’Toole, 1991, p. 454). Il torto di Togliatti era di assolutizzare questo aspetto e di considerare la questione nazionale o definitivamente superata all’interno del «campo socialista» oppure di secondaria importanza nell’ambito dello scontro planetario allora in atto. E, dunque, perché avrebbe dovuto commuoversi per le vittime dei carri armati sovietici più che per le vittime degli aerei anglo-francesi e dei carri armati israeliani in Medio Oriente? Oggi sappiamo dalle autorità ungheresi che ammontano a 2500 i morti di quelle tragiche giornate (Vannuccini, 1996, p. 17); nove anni prima, agli inizi del 1947, la repressione scatenata contro gli abitanti di Formosa dal Kuomintang era costata circa 10. 000 morti (Lutzker, 1987, p. 178). E ancora nel 1956 Chiang Kai-scheck continuava a godere del pieno appoggio degli USA che anzi si ostinavano a considerarlo unico legittimo rappresentante del popolo cinese! Sono gli anni -ha ricordato recentemente Sergio Romano- in cui «gli industriali andavano a Washington, come Vittorio Valletta, per essere autorizzati a concludere un accordo con i sovietici» (Romano, 1995, pp. 68-9): si poteva prendere sul serio lo sdegno dei giornali di questi stessi industriali per la limitazione della sovranità in Europa orientale? Avevano forse protestato per l’intervento della CIA, qualche anno prima, in Iran e in Guatemala, col rovesciamento di governi ben più democratici di quelli successivamente installati con l’aiuto americano?

4. Terzo Mondo e consapevolezza della questione nazionale

E’ pressappoco in questi termini che argomentavano Togliatti e buona parte dei dirigenti comunisti occidentali i quali, peraltro, non erano poi così isolati nell’ambito dell’opinione pubblica internazionale. All’ONU, i rappresentanti dei paesi non allineati come India e Jugoslavia condannano Inghilterra e Francia per l’avventura di Suez ma si mostrano molto più cauti e riservati per quanto riguarda l’intervento sovietico in Ungheria. La ragione di questo diverso comportamento non è da ricercare nell’ingenuità o nella doppiezza. In realtà, i dirigenti dei paesi non allineati hanno ben chiaro il peso della questione nazionale anche in Europa orientale. Nel discorso pronunciato a Pola l’11 novembre 1956, Tito collega i fatti di Ungheria e Polonia al trattamento dall’URSS inflitto alla Jugoslavia nel 1948:
«Dobbiamo rifarci all’anno 1948 quando per la prima volta la Jugoslavia diede una ferma risposta a Stalin, dicendo che desiderava essere indipendente, e edificare la propria esistenza e che il socialismo nel nostro paese non permette a nessuno di interferire nei nostri affari interni [...] Abbiamo messo in guardia che le tendenze che in Jugoslavia avevano provocato una così possente resistenza esistevano in tutti i paesi e che un giorno avrebbero potuto trovare espressione anche in quei paesi (cioè del campo socialista, ndr.) e che, in conseguenza, la situazione sarebbe stata molto più difficile da fronteggiare!» (in Bass-Marbury, 1962, pp. 57-9).
Più tardi, Nehru avrebbe tracciato questo significativo bilancio: «Gli avvenimenti del 1956 dimostrano che il comunismo, se imposto dall’esterno, non può durare. Intendo dire che se il comunismo va contro il sentimento nazionale diffuso non sarà accettato» (Brecher, 1965, p. 47).
Se anche i dirigenti cinesi appoggiano e forse persino sollecitano l’intervento sovietico in Ungheria, si preoccupano comunque di mettere in guardia contro «la tendenza allo sciovinismo da grande nazione», anche se, più che attribuirla ad un paese particolare,  inseriscono tale tendenza in un quadro storico e di filosofia della storia:
 «La solidarietà internazionale dei partiti comunisti è un rapporto di tipo completamente nuovo nella storia dell’umanità. E’ naturale che il suo sviluppo non possa essere scevro di difficoltà [...] Quando i partiti comunisti hanno tra loro rapporti fondati sull’uguaglianza dei diritti  e realizzano l’unità teorica e pratica attraverso consultazioni vere e non formali, la loro soldarietà s’accresce. Al contrario se in questi rapporti un partito impone la sua opinione agli altri, oppure se i partiti adottano il metodo di ingerirsi negli affari interni dell’uno e dell’altro piuttosto che quello dei suggerimenti e delle critiche fraterni, la loro solidarietà è compromessa. Poiché i partiti comunisti dei paesi socialisti assumono già la responsabilità di dirigere gli affari dello Stato, ed i rapporti tra i partiti si estendono spesso direttamente ai rapporti tra paese e paese e popolo e popolo, il buon regolamento di questi rapporti è diventato un problema che esige la massima circospezione» («Renmin Ribao», 1971, pp. 36-7).
D’altro canto, già al momento dello scoppio della guerra fredda, Mao aveva osservato che la visione bipolare del mondo distorceva la complessità dei rapporti e delle contraddizioni internazionali ed era in realtà funzionale ad una logica di dominio. Nel corso di una conversazione con una giornalista americana di orientamento comunista (Anne Louise Strong), nell’agosto 1946, il dirigente comunista cinese aveva dichiarato:
«Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sono separati da una zona molto vasta che comprende numerosi paesi capitalistici, coloniali e semicoloniali in Europa, in Asia e in Africa. Fino a quando i reazionari statunitensi non avrano assoggettato questi paesi, un attacco contro l’Unione Sovietica è fuori questione. [Gli Stati Uniti] controllano da lungo tempo l’America centrale e meridionale, e cercano di porre sotto il loro controllo anche l’intero Impero britannico e l’Europa occidentale. Con vari pretesti, gli Stati Uniti adottano provvedimenti unilaterali su vasta scala ed installano basi militari in molti paesi [...] Attualmente [...] non l’Unione Sovietica, ma i paesi in cui queste basi militari vengono installate sono i primi a subire l’aggressione USA» (Mao Tsetung, 1975, pp. 95-6).
 E cioè, agitando la bandiera della crociata antisovietica, gli USA sottoponevano intanto al loro controllo gli stessi «alleati». E’ a partire di qui che si può comprendere la messa in guardia del 1956 contro lo «sciovinismo di grande nazione». Ma i dirigenti sovietici non sembrano prestare grande attenzione a questa messa in guardia. Anzi, il successore di Kruscev, e cioè Breznev, si spingerà più tardi sino a teorizzare la «dittatura internazionale  del proletariato» e cioè la sovranità limitata dei paesi facenti parte di una comunità socialista internazionale da considerare ormai alla stregua di un’unica entità con il centro a Mosca. A questo punto, Mao e i comunisti cinesi applicheranno in modo esplicito anche in riferimento all’Unione Sovietica l’analisi fatta valere nel 1946 in riferimento agli USA.
 Perché allora i dirigenti dei paesi non allineati e più vicini al Terzo Mondo mostrano nonostante tutto una certa comprensione per l’URSS? Tito che nel 1948 aveva saputo resistere a Stalin e che qualche anno dopo aveva probabilmente incoraggiato in Europa orientale le aspirazioni «titoiste» ferocemente represse dai gruppi dirigenti più strettamente legati a Mosca, otto anni dopo giunge alla conclusione che, almeno per quanto riguarda il secondo intervento sovietico in Ungheria, esso «a dispetto delle obiezioni all’interferenza [...] fu necessario».

5. Europa orientale, Medio Oriente, Estremo Oriente

Come spiegare questo paradosso? La crisi in Europa orientale risulta strettamente intrecciata a quella in Medio Oriente, e non solo per il fatto che Gran Bretagna e Francia, protagonisti dell’avventura coloniale di Suez, sono in prima fila nella crociata contro l’URSS. Dulles rifiuta il finanziamento della diga di Assuan a Nasser dopo che questi ha accettato armi dalla Cecoslovacchia; il rapporto Kruscev, la cui pubblicazione segna l’inizio della crisi del 1956 in Europa orientale, la CIA lo riceve dal Mossad (Black-Morris, 1991, pp. 168-9). Le due crisi in Europa orientale e in Medio Oriente risultano a loro volta intrecciate a quella che si sviluppa in Estremo Oriente. Nasser suscita la collera del segretario di Stato americano anche per il fatto che l’Egitto riconosce diplomaticamente la Repubblica Popolare Cinese: gli USA sono impegnati a isolare e a bloccare con tutti i mezzi i tentativi del grande paese asiatico di conseguire finalmente l’unità nazionale, gettandosi alle spalle decenni o secoli di umiliazione coloniale. Si preoccupa in primo luogo di recuperare Quemoy e Matsu, due isole che -sottolinea Churchill in una lettera a Eisenhower del 15 febbraio 1955- sono «al largo della costa», «sono giuridicamente parte della Cina», la quale persegue «un ovvio obiettivo nazionale e militare, e cioè sbarazzarsi di una testa di ponte che si presta meravigliosamente per un’invasione della Cina continentale» (da parte dell’esercito di Chiang Kai-shek, installatosi a Taiwan e armato e appoggiato dagli USA) (Boyle, 1990, p. 193).
Queste considerazioni non impediscono al presidente americano di brandire l’arma atomica. A sentirsi minacciati non sono solo i dirigenti della Repubblica Popolare Cinese. Ritorniamo al discorso di insediamento di Eisenhower che esprime il suo appoggio ai francesi impegnati in Indocina. L’appoggio non è solo di carattere politico: nel 1954, le spese della presenza militare francese sono sostenute per l’80% dagli Stati Uniti (Boyle, 1990, p. 135). E’ soprattutto importante l’aspetto militare. Nelle sue memorie, l’ex-presidente del Consiglio francese, Bidault, riferisce che, alla vigilia di Dien Bien Phu, Dulles gli avrebbe proposto: «E se vi dessimo due bombe atomiche» (da utilizzare, s’intende, immediatamente?) (Fontaine, 1968, vol. II, p. 118).
A questo punto, ben si comprende l’atteggiamento assunto nel 1956 dai dirigenti dei paesi non allineati e del Terzo Mondo. Pur consapevoli del carattere nazionale della rivoluzione ungherese, sono propensi a credere che la minaccia principale ai movimenti di liberazione e indipendenza nazionale provenga dall’Occidente, e non solo per la presenza al suo interno di due potenze esplicitamente colonialiste quali Inghilterra e Francia, ma anche per la politica seguita dagli USA in Asia.
E’ però da notare che, tra Estremo Oriente e Medio Oriente le posizioni americane e britanniche conoscono un completo rovesciamento. Nel primo caso, sono gli USA a mettere in guardia contro una nuova Monaco. Così Eisenhower risponde a Churchill:
«Se posso ancora far riferimento alla storia, non agendo unitariamente e tempestivamente non riuscimmo a bloccare Hirohito, Mussolini e Hitler. Ciò significò l’inizio di lunghi anni di nera tragedia e di disperato pericolo. Hanno imparato qualcosa le nostre nazioni da questa lezione?» (Boyle, 1990, p. 138).
In occasione della crisi di Suez, invano Eden cerca di far ricorso anche lui al gioco delle analogie storiche: «Nasser è un paranoico e ha la stessa struttura mentale di Hitler» (Freiberger, 1992, pp. 165 e 252). Talvolta, il leader egiziano viene paragonato a Mussolini, ma solo per poterlo dipingere come servo del vero Hitler che siede a Mosca (Kruscev), sul modello del rapporto subalterno e servile del Duce italiano col Führer tedesco. In tale senso Eden definisce Nasser come «una sorta di Mussolini islamico» (Freiberger, 1992, pp. 178 e 263). Un punto rimane comunque fermo per i dirigenti della Gran Bretagna (e della Francia): qualsiasi cedimento o compromesso relativamente ai diritti dall'Inghilterra rivendicati sul canale di Suez avrebbe significato una riedizione della funesta politica di appeasement che, a suo tempo, aveva incoraggiato Hitler nella corsa al potere mondiale. Non per questo si lasciano ingannare gli USA che ormai stanno per soppiantare in Medio Oriente gli alleati «occidentali»; e, in una conversazione con Eisenhower, Dulles sottolinea che in gioco non è tanto Suez, «ma l'Algeria per i francesi e il golfo Persico per gli inglesi» (Freiberger, 1992, p. 190). E cioè, i primi vogliono infliggere una lezione all'Egitto di Nasser per scoraggiare e liquidare il movimento di liberazione nazionale in Algeria, i secondi per rafforzare il loro controllo su una zona di grande importanza strategica e petrolifera.
L’amministrazione americana è irremovibile. Se, secondo l’osservazione già vista di Kissinger, per l’invasione dell’Ungheria l’URSS non paga alcun prezzo neppure sul piano economico, per l’avventura in Egitto la Gran Bretagna vien posta dinanzi ad un terribile dilemma:
«Washington faceva brutalmente presente a Londra che dipendeva finanziariamente dagli Stati Uniti, mettendosi a vendere sterline a man bassa. Questo attacco si stava sviluppando con tale rapidità che, scrive Eden nelle sue memorie, “poteva metterci in una situazione disastrosa”. Invano cercò di raggiungere per telefono Eisenhower. Era la notte delle elezioni e tutto quello che ricevette fu una comunicazione del suo ambasciatore a Washington in base alla quale risultava che se il calo della sterlina continuava, il Regno Unito avrebbe rischiato il fallimento» (Fontaine, 1968, vol. II, p. 291).
Un comportamento che risulta tanto più duro per il fatto che esso appare inaspettato a coloro che sono costretti a subirlo. Non è mancato chi ha formulato l’ipotesi secondo cui gli USA avrebbero «architettato una trappola ai danni dei loro alleati lasciandoli agire, se non addirittura incoraggiandoli segretamente, al fine di sostituirsi al loro imperialismo». «Piuttosto ardita» o addirittura fantasiosa sembra giudicare questa ipotesi lo storico della guerra fredda da noi citato (Fontaine, 1968, vol. II, p. 281). Resta comunque da spiegare il fatto che nei confronti dei paesi alleati Gran Bretagna e Francia, gli USA sono decisamente più inflessibili che nei confronti dell’Unione Sovietica.
In realtà, già da un pezzo l’amministrazione americana avvertiva «frustrazione» a causa della «permanente presenza imperiale britannica nella regione». Il rovesciamento del regime di Farouk ad opera degli Ufficiali Liberi nel luglio 1952 è caratterizzato non solo  dalla «partecipazione di Washington al colpo di Stato» ma anche dai «tentativi degli Stati Uniti, all’insaputa dei britannici, di riorientare la politica egiziana»  (Freiberger, 1992, pp. 9 e 26). Significativamente, la crisi di Suez si conclude con la proclamazione della dottrina Eisenhower, in base alla quale «gli Stati Uniti considerano vitale agli interessi nazionali e alla pace mondiale la conservazione dell’indipendenza e dell’integrità delle nazioni del Medio Oriente» e si dichiarano pronti all’uso della forza militare per conseguire tali obiettivi (Commager, 1963, vol. II, p. 647). Per ironia della storia, proprio dopo la proclamazione di tale dottrina si verificano in Medio Oriente gli sonvolgimenti più colossali. La carta geografica viene continuamente ridisegnata: Egitto, Siria, Libano sono costretti a cedere territori a Israele appoggiata dagli USA i quali ultimi sono ancora oggi impegnati in operazioni e tentativi di smembramento dell’Irak. Ma, nonostante le apparenze, tutto ciò non è in contraddizione con la dottrina Eisenhower che, nella sostanza, sancisce il passaggio dalla Gran Bretagna agli USA del controllo imperiale di una zona di decisiva importanza strategica.

6. Una sola Monroe a conclusione della «terza guerra mondiale»

Per descrivere il periodo che va dal 1945-46 sino al crollo dell’URSS, un autore americano, che ha lavorato per decenni alla CIA, preferisce parlare di «terza guerra mondiale» (Gates, 1996). La categoria di guerra fredda risulta inadeguata, e non solo per il fatto che nelle aree periferiche essa diviene talvolta terribilmente calda. Persino per quanto riguarda il confronto diretto tra i due principali antagonisti, se anche il fronte più immediatamente evidente è quello della battaglia politico-diplomatica, economica e propagandistica, ciò non ci deve far perdere di vista il terribile braccio di ferro militare che, se anche non giunge sino allo scontro diretto e totale, non per questo rimane privo di conseguenze. Si tratta di una vera e propria prova di forza che agisce in profondità sull’economia e la politica del paese nemico, sulla sua configurazione complessiva; è una prova di forza che mira anche a sgretolare le alleanze, il «campo» del nemico.  Allorché nel 1958 riesplode la crisi di Quemoy e Matsu, l’URSS, consapevole della netta superiorità degli USA, si limita a garantire alla Cina una copertura che non va al di là del territorio continentale: il grande paese asiatico è costretto a rinunciare all’obiettivo considerato «ovvio» e legittimo anche da Churchill. A nulla è servito l’appoggio due anni prima fornito da Mao al Kruscev impegnato a ristabilire il controcordone sanitario di cui il paese-guida del campo socialista aveva bisogno; lo schieramento univoco all’interno della lotta tra i due campi non sembra più ai dirigenti cinesi la via che conduce al ristabilimento dell’unità nazionale e alla fine del periodo di umiliazioni coloniali. Se non l’uso, in ogni caso la minaccia delle armi, e in primo luogo delle armi nucleari ha influito in modo concreto, forse persino decisivo, sullo svolgimento della terza guerra mondiale. Alla luce di tutto ciò, sarebbe opportuno ridiscutere la consueta lettura, in chiave di «implosione» del crollo dell’URSS e del campo da essa diretto.
Ma la categoria di «terza guerra mondiale» risulta persuasiva solo a condizione che non la si interpreti esclusivamente come «guerra civile internazionale» tra due contrapposte ideologie e due contrapposti sistemi politico-sociali. Assolutizzare questo aspetto pur essenziale significa precludersi la compensione del Novecento nel suo complesso. E’ un problema di cui ci siamo occupati altrove (Losurdo, 1996). Qui conviene concentrare l’attenzione sugli Stati Uniti. A cavallo dell’intervento nel primo conflitto mondiale, Wilson provvede ad acquistare le isole Vergini dalla Danimarca, ad annettersi Portorico, a rafforzare il controllo su Cuba, Haiti ecc. e a trasformare il mar dei Caraibi in un lago americano (Julien, 1969, pp. 158-9). Gli USA fanno sentire tutto il loro peso nel primo conflitto mondiale solo nella fase finale, allorché entrambi gli schieramenti sono esausti e dissanguati. Subito dopo l’intervento, in una lettera al colonnello House, così Wilson si esprime a proposito dei suoi «alleati»: «Quando la guerra sarà finita, li potremo sottoporre al nostro modo di pensare per il fatto che essi, tra le altre cose, saranno finanziariamente nelle nostre mani» (in Kissinger, 1994, p. 224). Per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale, F. D. Roosevelt, che non a caso ha letto Mac Mahan (il teorico e il cantore della geopolitica e dell’importanza strategica della marina da guerra e delle basi navali), si preoccupa in primo luogo di mettere le mani sulle basi inglesi acquisendole nel 1940 mediante lo scambio con incrociatori (Losurdo, 1996, pp. 143-4). Qualcosa di analogo si verifica nel corso della guerra fredda o terza guerra mondiale. Prima di procedere all’offensiva finale contro la Monroe sovietica, gli USA si preoccupano di inglobare la Monroe britannica; per un altro verso, rafforzando in quello stesso periodo di tempo la pressione militare e nucleare contro la Cina cominciano ad incrinare la sua alleanza con l’URSS, che a sua volta esce largamente screditata dalla crisi ungherese. In questo senso, il 1956, ovvero gli anni a cavallo di Suez e Budapest rappresentano il momento di svolta della terza guerra mondiale, il momento in cui comincia ad assumere concretezza il «secolo americano» profetizzato e invocato da decenni dai teorici e cantori più appassionati dell’exceptionalism della repubblica nordamericana.
Alla crisi e al crollo dell’Impero sovietico corrisponde il ritorno trionfale della dottrina Monroe classica con l’invasione, ormai senza problemi, prima di Grenada e poi di Panama. Ma questa Monroe tende ora ad assumere dimensioni planetarie. All’embargo decretato unilateralmente ai danni di Cuba o dell’Irak Washington pretende di conferire valore universale. La proclamazione dell’«eccezionalismo» e del primato americano assume toni sempre più enfatici. Bush: «Io vedo l’America come leader, come l’unica nazione con un ruolo speciale nel mondo». Clinton: l'America è «la più antica democrazia del mondo», ed essa «deve continuare a guidare il mondo»: «la nostra missione è senza tempo». Kissinger: «la leadership mondiale è inerente al potere e ai valori americani». Appena rieletto, Clinton dichiara: «Oggi ho ringraziato Dio di essere nato americano». Se nel 1953 Eisenhower s’impegnava a sottolineare la differenza «tra leadership mondiale e imperialismo», oggi questa preoccupazione sembra dileguare o drasticamente ridimensionarsi: gli ideologi della politica estera del partito repubblicano teorizzano un «globale egemonismo benevolo» dispiegato a partire da Washington (Kristol e Kagan, 1996, p. 20). D’altro canto, all’impero romano paragona ripetutamente il suo paese un noto politologo statunitense: come l’antica Roma si serviva degli assedi così gli USA devono far ricorso all’embargo per domare o schiacciare i loro nemici, riducendo al minimo le proprie perdite (Luttwak, 1995, pp. 116-7).
Un ciclo si è chiuso e un altro se ne apre. A contribuire potentemente alla crisi del 1956 in Polonia è anche il fatto che a ricoprire la  carica di ministro della difesa sia il maresciallo Rokossovski, che pure è cittadino russo. Nella Russia di Eltsin, per un periodo di tempo prolungato la carica di  vicesegretario del Consiglio di Sicurezza è stata occupata dal «banchiere, petroliere, imprenditore televisivo, commerciante e businessman Boris Berezovskij». Non ha costituito un ostacolo alla sua ascesa «ai massimi fasti della politica russa» il fatto di avere «la doppia nazionalità russa e israeliana, con tanto di doppio passaporto». Gli Stati Uniti -commentava ironicamente un autorevole giornalista italiano al momento della «clamorosa scoperta»- «hanno già in mano le chiavi per il controllo» dell’esercito russo e dunque «che differenza fa se la sicurezza della Russia è affidata a un cittadino israeliano, o americano, o russo?» (Chiesa, 1996). A potersene stupire o scandalizzare sono solo politici prigionieri di un nazionalismo superato dalla storia: questo il punto di vista delle diverse amministrazioni statunitensi, le quali sembrano così riecheggiare gli slogan e le parole d’ordine agitate dai dirigenti sovietici negli anni d’oro in cui Mosca dirigeva il «campo socialista».
Agitati ora esclusivamente dagli USA, sono destinati ad aver un successo duraturo questi slogan e queste parole d’ordine? Già ora, essi incontrano l’opposizione esplicita di paesi (come la Cina e la Francia) che hanno alle spalle una tradizione di resistenza alle diverse Monroe. Ma può essere interessante ascoltare anche una voce che proviene da un paese che non gioca un ruolo di primo piano nelle relazioni internazionali. Un saggista, il quale può far tesoro della sua lunga carriera di diplomatico, chiama l‘Italia a «correggere il proprio rapporto ineguale con gli Stati Uniti»: «il paese è vassallo dell’America». Si tratta di rimettere in discussione o di ripensare la stessa presenza militare statunitense sul nostro territorio: «Oggi possono darsi situazioni in cui le basi vengono usate dagli americani per scopi che non corrispondono agli interessi italiani [...] le basi, quindi, sono diventate il nervo dolente dei rapporti italo-americani» (Romano, 1995, pp. 70 e 66-7). Ci ritorna in mente l’osservazione di Mao Tsetung, secondo cui le basi militari americane avevano di mira le «zone intermedie» più ancora che l’URSS. Sergio Romano così conclude: «Il problema dei rapporti italo-americani è soprattutto un problema di dignità nazionale» (Romano, 1995, p. 77). La questione nazionale non è dileguata. Le tre Monroe di cui parlava Bevin nel 1946, le due cui faceva riferimento Kennedy nel 1961 si sono chiaramente ridotte ad una, ma nulla lascia pensare che questa Monroe planetaria sia destinata a durare in eterno.
   
 
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Lo scambio ineguale. Italia e Stati Uniti da Wilson a Clinton, Laterza, Roma-Bari

Arthur M. Schlesinger jr., 1967
A Thousand Days. John F. Kennedy in the White House (1965), Fawcett Crest, New York

 Arthur M. Schlesinger jr., 1992
Four Days with Fidel: A Havana Diary, in «The New York Review of Books», 26 marzo

Carl Schmitt, 1991
Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950); tr. it. di Emanuele Castrucci e cura editoriale di Franco Volpi, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Adelphi, Milano

Michael S. Sherry, 1995
In the Shadow of War. The United States Since the 1930s,Yale University Press, New Haven and London

Stalin, 1953
Discorso al XIX congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (1952), in Problemi della pace, pref. di Pietro Secchia, Edizioni di Cultura Sociale, Roma

Evan Thomas, 1995
The Very Best Men. Four Who Dared. The Early Years of the CIA, Simon & Schuster, New York

Hugh Thomas, 1988
Armed Truce. The Beginnings of the Cold War 1945-46 (1986), Sceptre, London

Vanna Vannuccini, 1996
L’Ungheria di oggi assiste indifferente alla festa nazionale, in «la Repubblica» del 23 ottobre

Tony Judt, 1998
On the Brink, in «New York Review of Books» del 15 gennaio

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